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Tradurre bene per tramandare (n. 9)

Come tradurre “GRATIAS AGERE” ?

Dovendo rendere in italiano l’espressione gratias agere, e constatando che la locuzione rendere grazie esula dal linguaggio comune, i traduttori della seconda edizione del Messale Romano-Italiano – pur mantenendola nella maggior parte dei prefazi – hanno optato talvolta per il verbo ringraziare (cf prefazi di Natale II, Domeniche ordinarie X, Ordine, Penitenza, Santi Pastori, Comune IV, Comune VIII, Comune IX, Riconciliazione II). Siccome la posta in gioco è importante, è doveroso interrogarci sul significato esatto della locuzione latina.

Se vogliamo comprendere l’ampiezza teologica del verbo gratias agere, dobbiamo disporci a compiere un lungo cammino retrospettivo.

Rinunciando a intenderlo alla luce del significato ricorrente nel latino comune sulla base dell’etimologia immediata, ci vediamo costretti a risalire al verbo greco eucharistein, che esso è chiamato a tradurre. A sua volta l’eucharistein del Nuovo Testamento, delle liturgie e delle mistagogie patristiche non potrà essere inteso alla luce del significato ricorrente nel greco comune sulla base dell’etimologia immediata, che si limita a esprimere la nozione di gratitudine. L’impiego cristiano di eucharistein appartiene infatti a quel particolare linguaggio religioso e sacrale che è il greco biblico. Di conseguenza andrà letto alla luce dell’originaria matrice ebraica, che esso è chiamato a tradurre.

In questo cammino a ritroso interviene, quale guida sicura, la lingua siriaca.

Questa ha il privilegio di essere una lingua cristiana, ben radicata nel greco neotestamentario, e in pari tempo una lingua semitica, giacché il siriaco – detto pure aramaico orientale – è una variante della lingua in cui si esprimevano Gesù e la generazione apostolica. Ora, tutta la letteratura siriaca, sia biblica sia liturgica sia patristica, attesta quale matrice della coppia semantica eucharistein/eucharistia la coppia yadà’/tawdìta, che è identica alla coppia ebraica yadàh/todà [confessare/confessione], tipica dell’eucologia veterotestamentaria.

L’impiego sacrale della radice veterotestamentaria yadàh esprime in maniera eminente i sentimenti del vassallo – e pertanto dell’orante – sul punto di venir reintegrato nella relazione. Infatti l’ebraico yadàh, riferito a un termine di colpevolezza, significa che il vassallo/orante confessa il proprio peccato; riferito invece a Dio, significa che il partner umano confessa il suo Signore. Non si tratta tuttavia di due confessioni distinte, in quanto le due connotazioni si implicano a vicenda. Considerato nel momento cultuale, l’atteggiamento del partner umano che «si confessa» e «confessa» non è né una contemplazione autolesionistica della propria condizione di peccatore, né una pura contemplazione della trascendenza divina. Il partner umano, proprio quando si risolve a confessare le proprie colpe, avverte che il termine ultimo della confessione non è il «suo» peccato, bensì quel Signore cui solo compete di ristabilirlo in una relazione d’alleanza perennemente nuova.

Quantunque il verbo confessare (rendere grazie), considerato nella dimensione propriamente laudativa, si copuli facilmente con tutta la rosa dei verbi celebrativi – i quali sono praticamente intercambiabili – e divenga in tal modo sinonimo di benedire, lodare, celebrare, ecc., tuttavia il gruppo semantico yadàh/eucharistein/gratias-agere non perde l’altra sua originaria connotazione in rapporto alla confessione del peccato. È per questo che la prima sezione della preghiera eucaristica è anamnesi cultuale di una duplice storia relazionale, e cioè: è confessione storica della fedeltà di Dio e confessione storica della nostra infedeltà, confessione storica di peccato e confessione storica di grazia.

Nonostante l’equivalenza pratica della dimensione celebrativa del predetto gruppo semantico con i verbi affini, la sua totale ampiezza in nessun modo potrà essere ridotta al nostro povero moderno ringraziare o dire-grazie. Sappiamo che, quando si rivolge a Dio, l’orante biblico – e quindi la Chiesa che celebra l’eucaristia – è tutto proteso verso Colui dal quale provengono i mirabilia della comune storia relazionale, senza soffermarsi a considerare piccinamente l’entità di singoli doni ricevuti.

Il fatto che il veterotestamentario yadàh sia divenuto nel greco neotestamentario eucharistein e nelle antiche versioni latine gratias-agere, va considerato nel quadro della storia delle traduzioni e degli inevitabili slittamenti semantici: una volta messo in alternanza col verbo benedire, il verbo confessare venne compreso limitatamente alla connotazione della lode e della gratitudine. Di ciò dobbiamo prendere semplicemente atto, preoccupandoci in pari tempo di non intendere il termine da tradurre alla luce di quanto esso possa rappresentare nella lingua profana, bensì alla luce dei suoi ascendenti semantici compresi come espressione della lingua sacrale.

Nel pieno rispetto per le scelte dei traduttori antichi – d’altronde anche in linguistica la storia è storia –, riteniamo che il voler proseguire oggi sulla china che da gratias-agere conduce a ringraziare non farebbe altro che rendere ancor più difficoltoso l’accesso a quella ricchezza teologica che la primitiva coppia semantica yadàh/todà [confessare/confessione] ci ha effettivamente trasmesso e trasmette tuttora alle antiche Chiese di lingua aramaico-siriaca. In rapporto poi alla nostra situazione va tenuto presente che, mentre il mantenimento lungimirante di un linguaggio sostenuto può offrire ai pastori spunti per catechesi feconde, invece l’adozione affrettata del linguaggio comune vanifica tale possibilità.

Non dimentichiamo che «la traduzione letterale di locuzioni che nella lingua popolare suonano inconsuete può di fatto stimolare l’interesse dell’uditore e dare l’occasione di trasmettere una catechesi» (Liturgiam authenticam, n. 43).