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Tradurre bene per tramandare (n. 8)

Come tradurre “ GRATIAS AGENS BENEDIXIT” ?

Un caso tipico di parallelismo sinonimico, tramite accumulo di sinonimi, è l’endiadi gratias-agens benedixit che l’antica tradizione del canone romano ha adottato nella formulazione del racconto istituzionale. Per comprendere il valore dei due verbi occorre partire dalla considerazione della teologia, e della conseguente normativa rubricale, che il giudaismo post-biblico sviluppa intorno alla nozione di benedizione (berakà). In contesto conviviale il verbo benedixit, usato in assoluto, si riferisce alla breve benedizione giaculatoriale che il padre di famiglia rivolge a Dio prima di gustare i due alimenti più nobili di natura. Prima di mangiare il pane, dirà:

  • «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra»;

così pure, prima di bere il vino, dirà:

  • «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, re del mondo, creatore del frutto della vite».

Raffrontando i dati della letteratura talmudica con i racconti dell’istituzione eucaristica notiamo che, mentre nei testi talmudici si parla unicamente di benedizione, nei racconti neotestamentari intervengono alternativamente il verbo benedicere e il verbo gratias-agere. Mentre la tradizione matteano-marciana usa eulogêsas (benedixit/benedicens) per il pane (Mt 26,26; Mc 14,22) ed eucharistêsas (gratias-egit/gratias-agens) per il calice (Mt 26,27; Mc 14,23), invece la tradizione lucano-paolina si serve di un eucharistêsas (gratias-egit/gratias-agens) unico, che esprime per il pane (Lc 22,19; 1Cor 11,24), e tramite la locuzione «allo stesso modo» sottintende per il calice (Lc 22,20; 1Cor 11,25). Perché questa alternanza? Rispondono forse i due verbi a connotazioni diverse?

Dal momento che abbiamo trattato più volte in altra sede questa particolare questione (cf La struttura letteraria della preghiera eucaristica, 260-269; Eucaristia per la Chiesa, 192-200), qui ci limitiamo a riaffermare la loro assoluta equivalenza. Pertanto, se ci domandiamo con quali parole Gesù «ha reso grazie», rispettivamente, sul pane e sul calice, rispondiamo senza esitazione dicendo: «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, ecc.».
L’assoluta preminenza del verbo benedicere nella preghiera giudaica è dovuta al fenomeno della standardizzazione rabbinica, risalente a un’epoca che corrisponde grosso modo agli eventi neotestamentari. I rabbini stabilirono infatti che ogni preghiera iniziasse con la formula «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, re del mondo».
Attraverso l’impiego alternativo di eulogêsas [avendo-pronunciato-la-benedizione] e di eucharistêsas [avendo-pronunciato-l’azione-di-grazie], lo stadio della letteratura neotestamentaria rappresenta un momento di equilibrio instabile, che vede emergere ora l’uno ora l’altro verbo direttivo. Il fatto potrebbe spiegarsi ipotizzando, o che al tempo della redazione degli scritti neotestamentari la standardizzazione giudaica fosse ancora relativamente fluida, oppure che gli agiografi abbiano inteso prendere le distanze dalla standardizzazione in eulogein e avviare così una nuova standardizzazione cristiana in eucharistein (cf In unum corpus, 158-164).

Particolarmente significativa e determinante risulta l’osservazione dei testi siriaci sia biblici che liturgici. Anzitutto la radice siriaca yada’, presente negli scritti neotestamentari come retroversione semitica costante di eucharistein, ci permette di collegare con assoluta certezza il neotestamentario eucharistein all’ebraico yadah [confessare, rendere grazie] (cf In unum corpus, 292-294). Inoltre nei testi siriaci è evidente l’equivalenza e l’intercambiabilità tra il gruppo semantico barak/eulogein [benedire] e il gruppo semantico yadah/eucharistein [confessare, rendere-grazie]. Infatti chi ha la pazienza di confrontare i testi biblici nota assai spesso che là dove l’ebraico o il greco hanno barak/eulogein, il siriaco traduce con yada’ (= ebraico yadah); viceversa, là dove l’ebraico o il greco hanno yadah/eucharistein, il siriaco traduce talvolta con barak o con altri verbi celebrativi affini. Nell’antica versione siriaca, ad esempio, di 1Cor 10,16 si legge: «Il calice dell’azione di grazie che noi benediciamo».

Nei racconti istituzionali anaforici si incontrano casi di estrema sobrietà, quali ad esempio la totale assenza di entrambi nell’anafora di Serapione, oppure la presenza di un unico gratias-agens nell’anafora della Tradizione Apostolica. I due verbi figurano invece in coppia in un gran numero di anafore, quasi sempre con gratias-egit (o gratias-agens) prima e benedixit dopo. Talvolta poi in parecchie anafore, a cominciare da quelle di Giacomo, di Basilio e di Marco, la coppia si amplia in una sequenza celebrativa a tre membri: eucharistêsas, eulogêsas, hagiasas, usati in assoluto e pertanto riferiti a Dio, anche se dalle rubriche risulta che successivamente sia benedixit che sanctificavit vennero intesi in funzione consacratoria, con implicito e talvolta esplicito riferimento al pane e al vino. Anche qui, l’accumulo di sinonimi, mentre fornisce un’ulteriore conferma dell’equivalenza e intercambiabilità tra i diversi verbi celebrativi, si spiega con la preoccupazione di non lasciar cadere nulla dei dati scritturistici concernenti il racconto istituzionale, e in pari tempo con la tendenza a provvedere al medesimo una base letteraria sempre più corposa.

In ogni caso dobbiamo riconoscere che la traduzione italiana «rese grazie con la preghiera di benedizione», adottata dal Messale Romano-Italiano del 1965 e mantenuta nelle prime due edizioni tipiche, è una soluzione quanto mai felice.