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Tradurre bene per tramandare (n. 1)

Come abbiamo ricevuto, così dobbiamo trasmettere!


Sotto il profilo etimologico la nozione di tradizione appartiene all’area semantica del verbo «tramandare». Letto nella soggiacenza latina, esso suona «trans-mandare», o più precisamente «trans-manui-dare», cioè «consegnare qualcosa in mano a qualcuno», o più brevemente «trans-dare» ovvero «tradere», cioè «consegnare qualcosa a un altro». Attraverso l’etimologia propria alla componente «manui-dare», il verbo latino «mandare» lascia poi emergere la connotazione del comando e dell’ordine impartito, che il «mandante» impartisce appunto a chi è fatto destinatario di un«mandato».

Se colui che trasmette e colui che riceve si collocano nel presente, il messaggio trasmesso proviene ovviamente dall’esperienza del passato ed è ordinato a prolungare la sua operatività in un presente che è in continuo divenire. La tradizione è come una catena, cui non può mancare alcun anello. La nozione di tradizione, dopo aver detto una sola volta l’inizio assoluto, dice sempre continuità. Infatti chi trasmette, trasmette ciò che ha ricevuto da altri, che a loro volta l’hanno ricevuto da altri ancora.

La nozione di tradizione si colloca dunque nel quadro della coppia semantica «ricevere-trasmettere», largamente attestata dalla tradizione rabbinica e da Paolo tramite la formula tecnica che in ebraico suona qibbèl min [ricevere da] – masàr le [trasmettere a] e in greco paralambànein apò (+ genitivo) – paradidònai (+ dativo).

Nei documenti rabbinici gli anelli della catena vengono enumerati in linea tanto discendente quanto ascendente. Ecco due esempi. Per la linea discendente: «Mosè ricevette dal Sinai la Legge e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli Anziani, e gli Anziani ai Profeti, e i Profeti la trasmisero agli uomini della Grande Sinagoga»; per la linea ascendente: «Io l’ho ricevuta da Rabbì Miašà, il quale l’ha ricevuta da suo padre, il quale l’ha ricevuta dalle Coppie dei capi, i quali l’hanno ricevuta dai Profeti come norma di condotta data a Mosè dal Sinai». Il rabbino Paolo, nel richiamare alla mente dei cristiani di Corinto la sacralità dell’eucaristia, predilige il processo discendente: «Io infatti ho ricevuto dal Signore (parélabon apò tou Kyriou) ciò che anch’io ho trasmesso a voi (parédoka hymìn)...» (1Cor 11,23). Egli è di fatto l’anello che collega l’inizio assoluto della tradizione eucaristica, ossia il Signore Gesù, ai Corinzi.

Affine all’area semantica che fa capo al verbo «tramandare» («trans-dare») è quella espressa dal verbo «tradurre», che deriva dal latino «trans-ducere», cioè «condurre oltre, far passare». Quando si parla di «traduzione», si pensa immediatamente alla trasposizione di un testo da una lingua a un’altra, e a tutti i problemi di forma che tale trasposizione comporta. Tuttavia, prima ancora di essere una questione di stile letterario, la traduzione dei testi liturgici, non meno che la traduzione dei testi biblici, è un intervento che tocca direttamente la trasmissione del depositum fidei, considerato in rapporto alle ricchezze tramandate. Il compito che si assume il traduttore risulta pertanto assai delicato e gli impone di guardarsi, da una parte, dalle lusinghe di una pastorale galoppante e, dall’altra, dalle remore imposte dalla fedeltà aprioristica a una formulazione presentata come intangibile.